SAN DOMENICO

IL CONTEMPLATIVO

San Domenico, il grande predicatore, era, prima di tutto, un contemplativo. Prima di dar vita al ramo maschile dell’Ordine, ha voluto fondare un monastero di monache (1206). Domenico amava parlare poco. Quando apriva bocca, donava parole purificate dalla preghiera e dall’ascolto.

Il silenzio è il luogo privilegiato dell’intimità. Nei suoi viaggi apostolici, Domenico si allontanava spesso dai suoi fratelli per restare raccolto in preghiera. Ma le fonti raccontano pure che nessuno più di lui era socievole. Amava studiare, contemplare, custodire la Parola e conversare con le persone cui donava il frutto della sua familiarità con Dio. Una volta, stette per una notte intera in una locanda, dialogando vivacemente con l’oste che era alla ricerca della verità.

San Domenico era così appassionato di Dio e della gente che tutti, appena lo conoscevano, subito iniziavano a volergli bene. La relazione con Dio, infatti, umanizza e rende sempre più vicini al cuore degli altri. “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli”, dice il Signore, “se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).

La conversazione continua con Dio rende autentico e profondo il dialogo tra noi sorelle e non può che sfociare nell’apertura verso gli altri. Come potremmo trattenerci dal trasmettere a tutti la gioia del nostro incontro con Lui?

SAN DOMENICO E LE DONNE

In realtà, il fondatore dell’Ordine dei Predicatori non fece che confermare, al termine della propria vicenda terrena, quello stesso equilibrio, quell’armonia di cuore, di mente, di spirito e corpo che aveva sempre manifestato nel corso della sua esistenza. Giordano di Sassonia testimonia che il santo mostrava all’esterno quella meravigliosa eufonia di aspetti interiori che, sebbene nascosti, non potevano che fecondare di vita i suoi gesti e le sue parole. E afferma che “poiché un cuore lieto rende gioioso il viso, l’equilibrio sereno del suo interno si manifestava al di fuori nella bontà e nella gaiezza del volto”[2]. Eppure, in ciò che all’esterno brillava armonicamente di luce, il suo cuore puro, abbracciato dalla grazia, vedeva qualche “imperfezione”[3] di amore.

Provando a ripercorrere l’ideale pellicola della sua vita, e fissando lo sguardo sui fotogrammi del principio della chiamata e della missione, scorgiamo passi, scelte e gesti che ci aprono a una comprensione più profonda del rapporto che Domenico ebbe con le donne. Non è subito evidente la sua esperienza. Il sogno dell’evangelizzazione dei pagani e, in seguito, la nascita dell’Ordine non erano nati, in lui, come per altri fondatori, dalla condivisione iniziale di questo “progetto” con una “cofondatrice” o un’“amica spirituale”. I primi passi di questo percorso egli li aveva fatti al seguito del proprio Vescovo Diego. Lungo i chilometri percorsi insieme, lo Spirito iniziò a manifestare al santo, del tutto ignaro del suo futuro di unico fondatore del nuovo Ordine, i misteriosi disegni divini sulla Chiesa del suo tempo. Domenico, proveniente dall’esperienza di Osma, dove aveva vissuto diversi anni da vero contemplativo all’ombra della chiesa Cattedrale, era abituato a non ricercare la vicinanza delle donne, perché conosceva bene la propria umanità e sapeva quale distacco interiore e quale prudenza fossero richiesti a colui che desiderasse vivere una simile vocazione[4]. Paradossalmente, fu proprio questa libertà a preparare il suo cuore a incontri femminili profondi, liberi e veri[5]. Importanti e imprescindibili per l’inizio del nuovo Ordine. La storia avrebbe mostrato ancora, attraverso di lui, che Dio non opera qualcosa di importante senza la donna. Così come non suscita la predicazione senza farla precedere dalla contemplazione.

Domenico non aveva mai progettato di fondare un monastero. Egli, però, era un uomo aperto alla grazia. Si lasciava interpellare dagli avvenimenti, dagli incontri, dalle persone, dalle parole e dai silenzi: in tutto riconosceva il passaggio e la misteriosa voce della divina provvidenza. Il sogno dello Spirito gli era divenuto più chiaro quando aveva avuto la visione di un globo infuocato che, dall’altura di Fanjeaux, scendeva sul luogo dove sarebbe sorto, un giorno, il monastero: vedendo Prouille da lontano, egli ebbe la certezza che quello sarebbe stato “il centro propulsore della sua missione apostolica”. Il “luogo del sogno” di Dio, come suggerisce la traduzione del nome del belvedere di quella località, “Seignadou”[6]. Insieme a Diego, incontrò alcune perfette catare dedite all’accoglienza e all’educazione ereticale degli adolescenti e si adoperò con successo alla loro conversione. Successivamente, il Vescovo pensò di proporre a queste donne una forma di vita dove trovassero la possibilità di realizzare dentro la Chiesa quanto avevano erroneamente cercato e vissuto nell’eresia. Secondo le legende domenicane Domenico, nel 1206, le riunì a Prouille[7]. Il Beato Giordano, invece, aveva attribuito la fondazione del monastero a Diego[8]. In ogni caso, il sogno di entrambi iniziava a prendere vita. E Domenico, da subito, si prese cura delle monache istruendole spiritualmente, dando la legislazione, preoccupandosi di organizzare il loro lavoro[9].

A differenza degli Ordini monastici del tempo, che accoglievano soltanto giovani e fanciulle, egli fondò la prima comunità di contemplative con donne adulte, molte delle quali erano ex eretiche. La successiva regola di San Sisto sarebbe stata eloquente ed esplicativa riguardo l’età delle aspiranti alla nuova vita: “Di regola non vengano accettate in monastero fanciulle di età inferiore agli 11 anni”[10]. Questo dato è comprensibile solo tenendo presente che la maturità di una persona, all’epoca, veniva raggiunta precocemente rispetto ai tempi moderni. L’agire del santo non dovette essere accidentale. Le prime scelte di un fondatore, anche quando fossero per lui “casuali”, non lo sono certo dal punto di vista dello Spirito Santo. Che “scrive” il nuovo carisma proprio in quei primi gesti, in quei primi passi, in quelle prime esperienze.

Si trattava, dunque, di donne – spesso provenienti da famiglia nobile – che si erano appassionate della Verità e del sogno di evangelizzazione di Domenico. Non erano bambine, né tantomeno ingenue[11]. Divennero canali di luce proprio perché, per prime, erano state toccate e trasformate dalla grazia. La diversità di esperienze, età, provenienza e cultura non era di ostacolo all’acquisizione del carisma e a una comunione di vita che diveniva, anzi, proprio per questo, in se stessa, autentica e credibile predicazione del vangelo. Come Maria Maddalena, avevano incontrato il Risorto, spesso, soltanto dopo una lunga e travagliata ricerca[12].

Se, dunque, al termine della sua esistenza Domenico manifestò di avere avuto spiccata propensione alla conversazione con le donne più giovani piuttosto che con le anziane, sembra però chiaro che, al principio della fondazione dell’Ordine, nel costituire la prima comunità di monache, egli si fosse lasciato guidare unicamente dallo Spirito Santo. A Prouille, aveva vissuto un “ministero di dolcezza, predicando, implorando, e piangendo”[13]. E quando Diego, improvvisamente, era morto, “ebbe l’impressione che la sua stessa vita stesse per crollare”[14]. Ma Dio aveva preparato il cuore del santo a questo tempo di prova donandogli la comunità delle suore. Egli fu, principalmente, loro Padre e formatore[15]. In qualche modo, si sentiva anche “figlio”: “aveva trovato la sua famiglia, un focolare in cui, senza aver abbandonato nulla dell’austerità di vita né aver abdicato al suo riserbo, poteva ravvivare le sue energie, appoggiare la sua preghiera ed effondere il suo cuore”[16]. Egli desiderava che la vita delle monache fosse linfa vitale per i predicatori del vangelo. Non bastava che esse pregassero per i frati. Era necessario divenire “un cuore solo e un’anima sola”[17] in Dio, per la fecondità dell’Ordine e per la salvezza di tutti.

Questa unità Domenico la sperimentò, innanzitutto, con un gruppo di donne: con una comunità. La comunità di Prouille prima, e poi le comunità di Madrid, di Roma, di Bologna. Egli, il predicatore del Verbo Incarnato, sapeva bene che era stata una donna a partorire quella Parola destinata a raggiungere gli uomini e le donne di ogni luogo e di ogni tempo. Col di Maria era iniziata la Redenzione. Perché Dio comunica all’umanità nella sua completezza – all’uomo e alla donna, immagini di Cristo e di Maria – ogni sua opera. E ad essi, insieme, chiede la realizzazione del Suo disegno di amore. Se Cristo è l’unico Redentore e Maria una creatura che ha collaborato all’opera della salvezza del Creatore, è pur vero che, senza il della donna, il Verbo non si sarebbe incarnato.

Domenico, dunque, percorreva con gioia strade tortuose e impervie per raggiungere il monastero, il cui suono delle campane era di sollievo al suo cuore, anche da lontano, sia di notte che di giorno. L’uomo di Dio, poco avvezzo alla compagnia femminile, ma docile alla divina Voce interiore, divenne loro amabile e premuroso Padre. A Fanjeaux, accettava con gioia ogni privazione pur di aiutare le suore[18]. Ad esse comunicava il frutto della propria contemplazione e ne riceveva sostegno, forza, aiuto per la sua opera di predicatore.

A Roma, Papa Onorio III coinvolse Domenico in un progetto che, precedentemente, era stato accarezzato dal suo predecessore, Innocenzo III: quello di riformare le comunità monastiche femminili dell’Urbe riunendo tutte le suore nel monastero di San Sisto. Domenico accolse l’invito del Papa. Si adoperò con tutte le forze per convincere le religiose. In tante aderirono al progetto: in particolare, le comunità di S. Maria in Tempulo e di S. Bibiana. Ad esse si aggiunsero altre monache sparse. Saputo il fatto, i parenti e conoscenti delle religiose corsero al monastero per convincerle a tornare sui loro passi. Ma Domenico, subito, si recò al monastero e rivolse alle suore un’esortazione invitandole nuovamente all’obbedienza. Infine, esse fecero professione nelle sue mani[19]. Nel 1221, Domenico fece arrivare da Prouille otto suore affinché formassero la nuova comunità romana nell’osservanza regolare[20]. Della comunità di S. Maria in Tempulo faceva parte anche una certa suor Cecilia che aveva, allora, circa 17 anni. Di lei abbiamo un resoconto dei miracoli di san Domenico e un ritratto fisico del santo[21]. Su invito del Beato Giordano di Sassonia, primo successore di san Domenico, Cecilia si sarebbe trasferita, nel 1223, a Bologna per istruire nell’osservanza della Regola le suore del monastero di S. Agnese, recentemente fondato dalla B. Diana d’Andalò. Suor Cecilia era profondamente legata al Beato Padre, dal quale, insieme alle altre suore romane, aveva ricevuto l’abito e nelle cui mani aveva emesso la professione il 28 febbraio 1221. Nel suo scritto, la Beata racconta numerosi episodi della vita di Domenico al tempo del suo ministero romano. Dal ritratto, ricco di dettagli, che fa del santo possiamo evincere quale rapporto di profonda venerazione avesse per lui. Se è vero che la “compagna” di Domenico fu il gruppo delle monache, sue figlie spirituali, un posto speciale dobbiamo riservare a questa giovane religiosa. L’entusiasmo con cui ha trasmesso i gesti e le parole del Beato Padre è esplicativo del rapporto di unità nello Spirito che dovette realizzarsi fra i due. Proprio questa comunione profonda le permise di essere canale privilegiato di trasmissione del carisma alle sorelle del monastero di Bologna. E non è un caso che la Beata Diana d’Andalò ebbe, in seguito, a vivere lo stesso tipo di unità con Giordano. Le numerose lettere a lei indirizzate dal successore di san Domenico restano a testimonianza di una comunione che non si limitava ad essere sostegno o aiuto reciproco ma era, piuttosto, esperienza di unità nello Spirito tra uomo e donna. Diana, però, aveva vissuto in profonda comunione anche con il fondatore sin dal 1219: anno in cui, fra l’altro, aveva emesso il voto di obbedienza nelle sue mani. Nel 1220, i due si incontrarono nuovamente. Diana manifestò a Domenico il desiderio di fondare un monastero. Egli si prese del tempo per pregare e il giorno dopo comunicò la propria ferma decisione ai confratelli: “È assolutamente necessario, fratelli, costruire una casa per le suore. Anche se per questo si dovesse soprassedere alla costruzione della nostra”[22]. Contemporaneamente, aveva fatto sospendere i lavori per ingrandire il convento dei frati, iniziati in sua assenza. Sembra chiaro quanto fosse per lui prioritaria la fondazione dei monasteri. In questi primi tempi dell’Ordine, perciò, il carisma si sviluppava, si viveva e si comunicava proprio dentro questa comunione del maschile e del femminile.

Ma da Cecilia, ancora, apprendiamo di numerosi incontri che Domenico ebbe con figure femminili. Riferisce, per esempio, di una vedova romana che aveva un figlioletto ammalato ma, “divorata dal desiderio di sentire dalla sua bocca la parola di Dio”, lasciò il figlio e “andò in quella chiesa ad ascoltare la predica” di Domenico. Durante la sua assenza, il figlio morì. Subito, “fiduciosa nella potenza di Dio e nei meriti” del santo, gli recò il figlio morto. Trovò Domenico a San Sisto, “in piedi vicino alla porta del Capitolo come se stesse aspettando qualcosa”. Si avvicinò col bambino ed egli, “mosso a compassione”[23], lo guarì facendogli un segno di croce, prendendolo per mano e sollevandolo da terra. Cecilia racconta anche di una donna liberata da sette demoni. Questi intrapresero una lotta contro il santo e gli dicevano: “Coi tuoi inganni me ne hai sottratte quattro che erano mie: erano mie e tu me le hai portate via!”[24]. Ancora, Cecilia riferisce di tre monache, suor Teodora, suor Tedranna e suor Ninfa, che giacevano a letto con la febbre. Domenico si recò al monastero e chiese notizie della loro salute. Alla risposta della suora portinaia, disse: “Va’ a dir loro da parte mia che io ordino loro di non aver più febbre”. Subito, esse guarirono. Annota la Beata: “È da notare che già questo fu un gran prodigio, perché nessuno gli aveva riferito che quelle suore erano ammalate, ma l’aveva saputo per ispirazione dello Spirito Santo”[25].

La tenerezza che egli seppe effondere sulle sue figlie spirituali è ben espressa dall’episodio che lo vide arrivare a Roma nella comunità di San Sisto dopo un lungo viaggio dalla Spagna durante il quale “aveva portato in regalo, uno per ogni suora, due cucchiai di legno di cipresso”[26]. Un dono impreziosito dalla lunga strada a piedi che il santo aveva dovuto percorrere con questo peso. Ma egli amava prendersi cura delle suore anche con gesti piccoli che rivelavano la confidenza e l’amore che nutriva per loro.

Era anche capace di distendersi a far distendere gli altri. Una sera, le suore si erano già ritirate in dormitorio quando egli arrivò, insieme ai confratelli. Era solito visitarle dopo aver dedicato l’intera giornata alla predicazione, alle confessioni e agli incontri con le persone. Quello, però, era stato un giorno particolarmente intenso, poiché aveva accolto un novizio nell’Ordine. Giunti, dunque, a tarda ora, i frati che erano insieme a lui suonarono il campanello per radunare la comunità. Aperta la grata, le monache lo trovarono seduto. Allora, Domenico iniziò una conversazione con le sue figlie, al termine della quale disse: “É bene, figliole mie, che beviamo un poco”. E ancora, rivolgendosi ai frati: “Voglio che bevano anche tutte le mie figliole”. Allora disse a una certa suor Nubia: “Va’ alla ruota, piglia il boccale e passa da bere a tutte le suore’”. E infine: “Bevete pure a volontà, figliole mie!”[27]. Recando con sé in monastero anche i suoi confratelli, trasmetteva loro l’importanza di questa unità.

Gli Atti del processo di Tolosa menzionano, ancora, la testimonianza di altre donne. Guglielmina, moglie di un certo Elia Martino, racconta che ebbe a tessere la stoffa del cilicio di Domenico. Del quale, pure, sostiene che fosse vergine. Afferma di averlo avuto come commensale per più di duecento volte[28]. Anche Nogueza di Tolosa dà testimonianza della verginità di Domenico[29]. Beceda, monaca di Santa Croce, testimonia, ancora, la sua illibatezza. Riferisce di aver lei stessa preparato con le proprie mani due cilici per Domenico e per il Vescovo Folco. Spesso, preparava il letto per il santo ma la mattina lo ritrovava così come lo aveva preparato mentre Domenico stava per terra, un po’ assopito. Allora lo copriva ma, tornata dopo un po’, lo vedeva in ginocchio nell’atto di pregare. “Ella aveva, infatti, di lui grande cura”. La monaca afferma, ancora, che, “nonostante la sua lunga familiarità con lui, non lo udì mai pronunziare una parola oziosa”[30]. Più di duecento volte Domenico aveva preso i pasti nella casa di lei. Beceda conosceva benissimo le sue abitudini alimentari.

Interessante notare la familiarità di queste donne con l’uomo di Dio. Lo conoscevano, lo cercavano, ne ascoltavano le prediche.  Si rivolgevano a lui con fiducia piena e con la certezza di essere ascoltate. Egli frequentava la loro casa, prendeva posto alla loro mensa. Di lui si prendevano cura. Queste relazioni rivelano tanta reciproca attenzione, premura, familiarità e, insieme, sembrano essere spazio vitale in cui riluce il carisma dell’Ordine, laddove queste donne venivano liberate dalle tenebre e da lui rivestite della splendida luce della grazia.

Possediamo una sola lettera di Domenico che egli scrive alle monache di Madrid. Nella quale invita le suore ad “abitare la casa”[31], come richiesto dalla Regola di S. Agostino. Le richiama al silenzio, alla preghiera, alle veglie: ad imitare lui, quindi, che parlava o con Dio o di Dio. La vita delle monache era per il Beato Padre e per i frati “motivo di grande gioia”. La preoccupazione affinché esse avessero una casa era prioritaria. Non solo perché aveva premurosa cura di loro, ma anche perché sapeva che, senza la “casa” delle monache, cioè senza la loro vita contemplativa, la missione dei Predicatori non avrebbe avuto successo. Domenico, inoltre, in questa preziosa lettera riconosce loro piena autonomia, anche dagli uomini! Afferma infatti: “Gli deleghiamo[32], infine, facoltà di visitare, riprendere e – in caso di necessità – deporre la priora quando vi fosse il consenso maggioritario delle monache[33]. Quale meravigliosa consapevolezza della dignità della donna, molti secoli prima dell’acquisizione di tanti diritti femminili a livello civile! Domenico ha bisogno di una vera “compagna” nella sua opera. Che condivida con Lui la vita di Dio e la missione. Come Cristo e Maria erano “una cosa sola”, pur con compiti diversi, nel disegno del Padre così, nell’Ordine, uomo e donna dovevano essere un cuore solo e un’anima sola per diffondere ovunque la carità di Cristo. Per realizzare tutto questo, però, era necessario che il monastero fosse vera “casa” dell’Ordine. Che le monache vivessero, cioè, un’autentica vita contemplativa in grado di rendere feconda l’evangelizzazione.

Diceva S. Agostino: “Ciò che sono divenuto e in che modo, lo devo a mia madre!”. E Papa Pio X: “Ogni vocazione sacerdotale viene da Dio, ma passa attraverso il cuore di una madre!”. S. Caterina da Siena, infine, ricevette questa rivelazione da Dio Padre: “Egli [Domenico] fu uno lume che io porsi al mondo col mezzo di Maria”[34]. Non basta parlare di “ministero femminile”[35] di Domenico. Chiamato a seguire il Verbo nell’annuncio della Parola, egli non poteva fare a meno di condividere questa missione con la donna, come Cristo l’aveva condivisa totalmente con Maria. La donna, dunque, era chiamata a realizzare, insieme a lui e distinta da lui, l’unico progetto del Padre sul nuovo Ordine. Ma Cecilia non era chiamata solo a sostenerlo o a “stargli di fronte”. I due santi, profondamente radicati in Dio, e in Lui solo, completamente distaccati e liberi, erano “un cuore solo e un’anima sola”[36]. Erano, dunque, l’una per l’altro[37]: condividevano la vita di Dio in loro. Non tanto o non solo con le parole; non con il portare avanti, insieme, dei progetti; ma uniti in Dio per la Chiesa e l’umanità. Questo spiega i dettagliati resoconti della Beata di quanto Dio operò attraverso il santo. Spiega, ancora, la dedizione totale di entrambi, con compiti complementari, alla salvezza di tutti. E la fecondità dell’Ordine nei primi tempi della fondazione.

Sr. Mirella Caterina Soro op

*Questo articolo è tratto dalla rivista “Vita Cristiana”, Nerbini, 2/2021.

[1] Beato Giordano di Sassonia, Libellus de initio Ordinis Fratrum Prædicatorum, 92, in P. Lippini, San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1998, p.157.

[2] Ibid., 103, p.165.

[3] Cfr. ibid., 92, p.157.

[4] Cfr. ibid., 50, p.124, dove il Beato Giordano di Sassonia racconta come il santo superò la tentazione di una prostituta.

[5] Cfr. H. Vicaire, Storia di S. Domenico, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo(Mi) 1983, p.252.

[6] Cfr. ibid., pp.223-224.

[7] Cfr. Umberto, n. 19, in H. Vicaire, Storia di S. Domenico, cit., p. 250.

[8] Cfr. Beato Giordano di Sassonia, Libellus de initio Ordinis Fratrum Prædicatorum, cit., 27, p.96.

[9] Cfr. H. Vicaire, Storia di S. Domenico, cit., p.251.

[10] La Regola delle monache di S. Sisto in Roma, 2, in H. Vicaire, Storia di S. Domenico, cit., p.297.

[11] Cfr. H. Vicaire, Storia di S. Domenico, cit., pp.235-236.

[12] Cfr. Gv 20,11-18.

[13] H. Vicaire, Storia di S. Domenico, cit., p.279.

[14] Ibid., p.259.

[15] Cfr. ibid., p.251.

[16] Ibid., p. 253.

[17] Cfr. Regola di S. Agostino, I, 3.

[18] Cfr. H. Vicaire, Storia di S. Domenico, cit., p.251.

[19] Cfr. Suor Cecilia, I miracoli del Beato Domenico, 14, in P. Lippini, San Domenico visto dai suoi contemporanei, cit., p.411.

[20] Cfr. H. Vicaire, Storia di S. Domenico, cit., pp.247-248.

[21] Cfr. Suor Cecilia, I miracoli del Beato Domenico, 15, cit., p.413.

[22] H. Vicaire, Storia di S. Domenico, cit., pp.586-587.

[23] Suor Cecilia, I miracoli del Beato Domenico, 1, cit., p.372.

[24] Cfr. ibid., 5, p.386.

[25] Ibid., 9, p.401.

[26] Ibid., 10, p.401.

[27] Ibid., 6, pp.390-391.

[28] Cfr. Atti del processo di Tolosa o di Linguadoca, 15, in P. Lippini, San Domenico visto dai suoi contemporanei, cit., p.507.

[29] Cfr., ibid., 16, p.507.

[30] Ibid., 17, pp.507-508.

[31] Cfr. Regola di S. Agostino, I, 3.

[32] Il santo si riferisce qui a Mamés, fratello del santo Padre Domenico e anch’egli frate dell’Ordine.

[33] Cfr. Lettera di S. Domenico alle monache di Madrid, in H. Vicaire, Storia di S. Domenico, cit., p. 459.

[34] S. Caterina da Siena, Il Dialogo della Divina Provvidenza ( a c. di Cavallini G.), Cantagalli, Siena 1995, CLVIII, 478-479.

[35] Cfr. H. Vicaire, Storia di S. Domenico, cit., p.251.

[36] Cfr. Regola di S. Agostino, I, 3.

[37] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 371.

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