La ferita della compassione
C’è qualcosa di meraviglioso nella vita di un domenicano che è la fonte stessa di una grande felicità. È la predicazione? È la vita fraterna? O forse lo studio?
La nostra vita è affascinante perché comprende tanti aspetti, tutti importanti, ma è anche vero che è tutta rivolta verso un unico, grande fine che tutti li avvolge, li
comprende e a tutti dà senso e valore. E che è il fine stesso per cui Domenico di Guzman fondò l’Ordine (costituito dalle monache, dai frati e dai laici). Questo fine lo esprime bene il Beato Raimondo da Capua che, quando racconta la vita di Santa Caterina da Siena, sua figlia e madre spirituale, afferma che il Padre rivelò alla santa lo scopo per cui aveva suscitato l’Ordine domenicano nella Chiesa: lo zelo per le anime. In altre parole, la passione per la vita di tutti i figli di Dio. Per la vita della grazia, che illumina e rende possibile la stessa vita del corpo.
I figli di Domenico hanno un DNA che li fa riconoscere come fratelli e figli dell’unico Padre. È quella ferita continua che Domenico si portava dentro:
la ferita della compassione. È una qualità materna, tanto che nel vangelo la troviamo espressa con un termine greco che esprime l’amore viscerale, materno di Dio.
Ad esempio, nella parabola del Padre misericordioso (Lc 15).
Che cos’è, allora, lo scopo per cui Dio ha pensato l’Ordine domenicano, se non l’amore viscerale per i Suoi figli? Il nostro cuore è stato creato da sempre per essere “casa”. Luogo, spazio di vita, di accoglienza, di dono, di tenerezza. Siamo resi da Dio grembo che accoglie i figli che Egli ci dona. Ecco perché è limitante affermare che i domenicani hanno lo scopo di predicare. Certo, l’annunzio della Parola è quanto ci contraddistingue ed è la nostra missione. Ma lo scopo della nostra vita domenicana è ancora più profondo, va oltre la predicazione perché la comprende, la
abbraccia, ma la supera. Il Verbo, infatti, vuole passare attraverso tutto il nostro essere, i nostri sentimenti, il corpo, l’anima e ogni esperienza di vita per raggiungere, toccare e guarire tanti fratelli e sorelle. Come? Alcune di noi attraverso la parola, gli scritti, l’arte. Altre non vanno mai a tenere incontri, a dare testimonianze o fare predicazioni. Eppure, i loro gesti quotidiani, le parole dette o taciute al momento giusto, la preghiera raccolta, il lavoro attento e la vicinanza premurosa a chi di noi è nel bisogno: tutto questo le rende feconde nell’Ordine e nella Chiesa. Quanti cuori esse riusciranno ad aprire con i loro segreti atti di amore! Ciò che Raimondo da Capua definisce come “zelo per le anime”, quindi, non è altro che una profonda, reale esperienza di maternità, che impregna di sé tutta la nostra vita. Dio ci ha chiamate non tanto o non solo a godere dell’amore dello Sposo, ma a prenderci cura dei Suoi figli. A divenire custodi di quanti ci affida. E i nostri figl i sono tutti coloro che sono cari a Dio: lontani, dispersi, piccoli, indifesi. Ecco il fine e la gioia della vita domenicana: accogliere i legami che Dio ci regala e farne uno spazio di comunione, di libertà e di vita. Divenire, come Maria, “grembo” fecondo perchè il seme della Parola germogli, cresca e porti frutto nel cuore di tanti fratelli.